domenica 19 dicembre 2010

Farina, acqua, aria di mare, sole


Farina, acqua, aria di mare, sole
GRAGNANO - Scelgo di sostare ancora per un po’ nell’affascinante suggestivo scenario dei Monti Lattari, non allontanandomi troppo dal verde e dagli scorci di Pimonte. La mia tappa è questa volta la città di Gragnano, situata più in basso rispetto a Pimonte e circondata quasi a ferro di cavallo dalle colline che costituiscono le prime propaggini dei Monti Lattari.

Gragnano è un antico centro abitato fin dall’epoca pre-romana dagli osci e dai sanniti. Conquistata dai Romani, la città divenne un importante territorio agricolo dove sorgevano numerose villae rusticae, abitazioni di campagna appartenenti a ricchi coloni romani, dimora dei servi che si occupavano delle proprietà attorno alla villa. Sono diversi i ritrovamenti di resti di queste ville, come quella dell’Ogliaro, la cosiddetta villa “dei Medici” e quella rinvenuta in località Sassola, sulle cui pareti è stato rinvenuto un affresco raffigurante Bacco che versa il vino da un corno, ora custodito al Museo Nazionale di Napoli.

Nonostante il notevole sviluppo dell’agglomerato urbano e la crescente impronta dell’uomo, Gragnano ha conservato intatto il suo meraviglioso pae -saggio naturale, fatto di valloncelli, dossi e poggi panoramici a picco sulla piana di Pompei, che offrono splendide vedute di Castellammare e del Golfo con le isole e il Vesuvio. Un paesaggio a tratti alpestre, rupestre, pastorizio, ricco di vegetazione dove dominano vigneti, uliveti e boschi di lecci, noci e castagni che si susseguono anche nella famosa “Valle dei Mulini”, dove fino al secolo scorso erano attivi 25 mulini ad acqua adibiti alla macina del grano. Il prodotto di questi mulini veniva poi portato a dorso di mulo su in paese dove veniva trasformato nella bontà che ha reso celebre Gragnano in tutto il mondo e che mi ha spinto in questo splendido paese: la pasta.

La pasta è un alimento conosciuto fin dall’antichità, già Cicerone e Orazio, infatti, ben cento anni prima di Cristo, erano ghiotti di làgana (termine che deriva dal greco laganos da cui il latino làganum che designava una schiacciata di farina, senza lievito, cotta in acqua, la forma plurale làgana indica strisce di pasta sottile fatte in farina e acqua, da cui derivano le nostre lasagne). Fu il cuoco Apicio a lasciarci la prima vera documentazione sull'esistenza di un composto assai simile alla nostra pasta; nel suo "De re coquinaria libri" infatti egli descrive un timballo racchiuso entro làgana. La pasta, così come la conosciamo oggi, si pensa sia originaria della Sicilia, da dove di diffuse in tutta Italia e nel mondo arabo.

Ma è in Campania e in particolar modo nella zona del napoletano che la pasta riscuote il maggior successo, divenendo nel XVII secolo l’alimento ideale a fronteggiare le necessità della sempre crescente popolazione; non per niente i tradizionali “maccaroni” vengono associati inscindibilmente alla città partenopea. Più di ogni altro luogo campano è però la città di Gragnano ad avere acquisito da oltre 500 anni il primato nella produzione della pasta. Nel periodo che va dal 1500 al 160 ha infatti inizio la produzione dei cosiddetti "maccheroni" per uso familiare, realizzati con farina di semola di grano duro, che veniva, appunto, macinata nei mulini dell’omonima valle. Dopo il 1950 sorsero le prime industrie a conduzione familiare dedicate alla produzione della pasta, attività che ben presto si espanse al punto di divenire la principale occupazione dei Gragnanesi.

La natura ha provveduto a rendere Gragnano il luogo ideale per la produzione di questa eccellenza gastronomica: il clima caldo, ma mai umido, grazie alla vicinanza col mare, determinano l'ambiente ideale per l'essiccazione della pasta. In origine questa veniva fatta per le strette strade della città, anche dopo l'istituzione dei primi pastifici intorno al ‘600. Oggi la produzione, seppur moltiplicata grazie a numerosi pastifici, segue ancora la lavorazione artigianale, caratterizzata dalla trafilatura in bronzo e dall'essiccazione naturale, che conferisce alla pasta un ineguagliato livello di qualità, oltre che il tipico colore dorato nel quale si riflettono i raggi del sole assorbiti dal grano.

Vari e diversi i formati di pasta prodotti a Gragnano, spaghetti, candele, rigatoni, ma soprattutto i tradizionali paccheri, noti per la loro grandezza e per essere adatti ad essere consumati sia con il semplice pomodoro che con sughi più elaborati a base di pesce o carne. Un tempo conosciuti come “la pasta dei poveri” poiché per le loro dimensioni ne era sufficiente un numero esiguo per riempire il piatto, vennero ben presto apprezzati anche dai nobili napoletani e oggi più che mai sono presenti sulle tavole di buongustai ed estimatori.
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Fotografie SEMA, 2009, Giuseppe Ottaiano © tutti i diritti riservati, la riproduzione di questa foto è vietata ai sensi legge 633/41 e successive modifiche e integrazioni.

domenica 12 dicembre 2010

Le “cerase” di Pimonte, mostri di bont


 

Le “cerase” di Pimonte, mostri di bontà
Dal monte ai cui piedi mi sono per un po’ soffermato, il Vesuvio, mi sposto verso altre montagne, forse meno note, ma non per questo meno affascinanti. Mi dirigo verso i Monti Lattari, la catena montuosa, istituita a Parco Regionale, che rappresenta il prolungamento occidentale dei Monti Picentini dell'Appennino Campano, costeggia l'Agro nocerino-sarnese e si protende infine nel mar Tirreno formando la Penisola Sorrentina.

Più precisamente la mia meta è rappresentata, stavolta, da un piccolo paese situato in uno dei punti suggestivi di queste montagne. Si tratta del Comune di Pimonte, il cui abitato si divide in due zone principali: un’area pedemontana e collinare e una montana, ricca di sentieri di cui alcuni sopravvivono sulle tracce di antiche mulattiere. Questi conducono in zone di suggestivo fascino naturalistico e di grande interesse storico, come la cresta del Monte Pendolo e l’area cosiddetta del “Belvedere”.

E’ un luogo particolare, immerso nel verde, eppure non troppo lontano dal limpido mare della costiera sorrentina, in cui la bellezza naturale del paesaggio è impreziosita dalle testimonianze storiche lasciate dall’uomo, come i due castelli di Pino e Pimonte, fondati dagli Amalfitani, al tempo in cui la città si era costituita Repubblica Marinara, per difendere le zone interne dei propri domini dalle invasioni longobarde e saracene. Ma l’uomo ha inciso sul paesaggio naturale anche grazie ad altri importati interventi, come le coltivazioni avviate lungo i fianchi della montagna, tra le quali si distinguono quelle che rappresentano il vero motivo della mia visita in questo piccolo paese montano: le coltivazioni di ciliegie. La ciliegia può vantare una lunga e antica tradizione in Campania.

Apprezzata fin dal tempo dei romani, appare, al pari di altra frutta campana di pregio, raffigurata negli affreschi pompeiani, anche se le prime vere testimonianze storiche della sua presenza in Campania risalgono al 1550. Queste attribuiscono l’introduzione della cultura del ciliegio nel napoletano a Gaspare Ricca che, sposando una nobildonna di Marano, divenne proprietario di un ampio appezzamento di terreno che si estendeva fino all’attuale quartiere partenopeo di Pianura.

La denominazione 
“Arecca”, che oggi individua la collina di Marano e la cultivar di ciliegie prodotte in quest’area, (la Della Recca), deriverebbe appunto dalla deformazione del cognome del proprietario, Recca. Nei secoli scorsi, durante il mese di Giugno, i muli facevano di continuo la spola tra le colline di Chiaiano e Marano e i magazzini dove avveniva la sistemazione delle ciliegie nelle cosiddette “varriate”, grandi ceste rettangolari, sostituite in seguito dalle “ cerasare”, più piccole e pratiche.

L’elevata qualità della Ciliegia Napoletana ha consentito l’estendersi di questa coltivazione ad altre località della Campania, tra queste, appunto, i Monti Lattari e in particolare Pimonte. Sono numerose le varietà di ciliegia che si possono trovare nella nostra regione, quali la Malizia, la Lustra, la Cornaiola, la Francese, ma la mia attenzione è dedicata ad una varietà poco nota ma incredibilmente gustosa, la cosiddetta “Cerasa do’ mostro” di Pimonte, così amichevolmente chiamata dai contadini locali per la “mostruosa” dimensione che la caratterizza. Di forma tondeggiante, di colore rosso scuro, dalla polpa soda e succosa, si tratta di una varietà di ciliegia che matura tra fine giugno e prima decade di luglio, una ciliegia, dunque, appartenente alla categoria delle tardive.

Questa varietà di ciliegia rappresenta un ecotipo unico, sviluppatasi sicuramente grazie alla particolare geomorfologia del territorio che consente alle coltivazioni di beneficiare di un clima fresco, quasi alpino, mitigato, inoltre, dalle brezze che spirano dalla vicina costa. La particolare grandezza di questi frutti esalta le già importanti proprietà nutritive della ciliegia, ricca di potassio, acidi organici, ma anche calcio, fosforo e vitamine A e C. Caratteristiche organolettiche che la rendono un frutto dalla spiccata azione dissetante, particolarmente indicato quindi per il consumo estivo, da consumare fresco o anche come componente di marmellate, dolci, sciroppi e succhi: una delizia fresca e invitante per alleviare le giornate di calura.
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domenica 28 novembre 2010

Albicocche, frutti del Vesuvio


Albicocche, frutti del Vesuvio
All’ombra del vulcano crescono frutti estivi prelibati, produzione d’eccellenza della Regione Campania
Resto all’ombra del Vesuvio, montagna al contempo gentile e minacciosa, un gigante sonnecchiante che sorveglia i paesi situati ai suoi piedi. Tra questi, uno dei più famosi è senza dubbio la Città di Ercolano, resa nota dai ritrovamenti archeologici avvenuti sul suo territorio. I celebri scavi archeologici vennero iniziati per puro caso da alcuni operai, che, nel 1709, durante i lavori per la costruzione di un pozzo si imbatterono nel teatro dell’antica Herculaneum. Era l’inizio della scoperte che riportarono alla luce l’antica città sepolta dalla terribile eruzione del Vesuvio nel 79 d.C., in occasione della quale furono distrutte anche le vicine Pompei ed Oplonti.

L’interesse suscitato dalle eccezionali scoperte fece si che nel ’700 Ercolano divenisse una meta ambita da visitare e in cui fermarsi a vivere. Il clima salubre e lo splendido paesaggio fecero il resto attirando la migliore aristocrazia napoletana settecentesca che qui poteva dedicarsi alle più raffinate attività di svago. In questo periodo la città si arricchì di ville e palazzi sontuosi progettati dai più illustri architetti dell’epoca e decorate dagli artisti più rinomati. Queste ville, infatti, portano la firma di nomi illustri quali Vanvitelli, Vaccaro, Gioffredo, Fuga e il loro splendore era ed è tale da far meritare alla strada che le costeggiava l’appellativo di “Miglio d’Oro”.

Si può dire,dunque, che il Vesuvio, sebbene sia stato portatore di distruzione, abbia contribuito a rendere famosa Ercolano e non solo per i reperti archeologici. Grazie alle ceneri delle eruzioni vulcaniche, infatti, i terreni di Ercolano, ma più in generale di tutta l’area vesuviana, sono ricchi di minerali e per questo particolarmente adatti alle coltivazioni.

Tra i prodotti che la generosa terra vulcanica offre è da ricordare l’albicocca, una coltivazione che in Campania e soprattutto nel napoletano è da lungo tempo molto diffusa e che ad Ercolano occupa un posto di primo piano tra le produzioni agricole. La Campania è la regione italiana più importante nella coltivazione di albicocche, con quasi 50.000 tonnellate di prodotto, proveniente per la maggior parte dall'area vesuviana, che rappresenta circa l'80% della produzione regionale.

Una delle prime testimonianze precise della presenza di albicocchi in Campania è dovuta a Gian Battista Della Porta, scienziato napoletano, che, nel 1583, nell’opera “Suae Villae Pomarium” distingue due tipi di albicocche: bericocche e crisomele, più pregiate. Da questo antico termine deriverebbe quindi il napoletano “crisommole”, ancora oggi usato per indicare le albicocche, e in particolar modo le crisommole alessandrine, che ancora esistono nell’area vesuviana.

Successivamente il testo ad opera di autori vari, ”Breve ragguaglio dell'Agricoltura e Pastorizia del Regno di Napoli”, del 1845, riconosce l'albicocco come l'albero più diffuso, dopo il fico, nell'area del napoletano, e precisamente in quella vesuviana, “dove viene meglio che altrove e più maniere se ne contano, differenti nelle frutta …”. E’ chiaro, dunque, che già in passato esistevano diversi ecotipi di questo frutto, ed infatti, con il nome “Albicocca Vesuviana” si indicano oggi oltre quaranta diversi tipi di frutti, tutti originari della zona.
 
I più diffusi 
sono: Ceccona, Palummella, S. Castrese, Vitillo, Fracasso, Pellecchiella, Boccuccia Liscia, Boccuccia Spinosa e Portici. Si distinguono dal punto di vista estetico per la presenza di sfumature rosse o di punteggiature giallo-arancio sulla buccia. I tempi di maturazione differiscono da un cultivar all’altro, ma ingenerale le albicocche del Vesuvio si possono definire, per la maggior parte a maturazione precoce e medio-precoce: si raccolgono verso metà giugno.

Sono apprezzate sul mercato per le loro caratteristiche organolettiche, soprattutto per sapidità e dolcezza, dovute alla particolarmente alta concentrazione di potassio presente nel terreno. Oltre al potassio le albicocche contengono grandi quantità di carotene e vitamina A e buone quantità di vitamina C, assieme ad altri minerali come fosforo, magnesio e calcio. Queste particolari caratteristiche organolettiche le rendono il frutto ideale per il consumo estivo: il potassio, infatti, favorisce il ripristino di ciò che si perde attraverso la sudorazione, mentre il carotene favorisce un’abbronzatura veloce e duratura. Un frutto delizioso, da gustare fresco, oppure trasformato in nettari, ossia in succo e polpa, ottimo anche per la realizzazione di confetture, essiccati e canditi, e da assaporare nella versione sciroppata.
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mercoledì 24 novembre 2010

Il Piennolo, bontà rosso fuoco


"Tra le città di Somma Vesuviana, Massa di Somma ed Ercolano, alla ricerca dell’oro rosso del Vesuvio."

Il Piennolo, bontà rosso fuoco
Il Vesuvio ha nel tempo donato alle pianure circostanti un terreno fertile e produttivo, custode di prelibatezze protagoniste da sempre della nostra cultura gastronomica. Il mio viaggio continua, o meglio, riprende dopo la pausa inaspettata e piacevole che mi ha bloccato appena partito.

Mi dirigo verso le campagne circostanti i comuni situati alle pendici del Vesuvio, e più precisamente verso l’area compresa tra le città di Somma Vesuviana, Massa di Somma ed Ercolano, alla ricerca dell’oro rosso del Vesuvio.

Il vulcano partenopeo, di cui, dalla posizione in cui mi trovo,scorgo il versante del Monte Somma, domina lo scenario della mia ricerca,come da sempre domina questi luoghi, con la sua mole minacciosa, ma allo stesso tempo familiare, quasi rassicurante. Nella cultura partenopea, il Vesuvio è sempre stato concepito come una sorta di Giano Bifronte, presenza oscura e nefasta, pacifica e generosa: e una volta raggiunto l’obiettivo della mia ricerca, mi rendo conto del perché.

Dinanzi ai mieiocchi si offre uno spettacolo che solo in questi luoghi è possibile osservare: una serie quasi infinita di piccoli globi rossi, del colore del fuoco, che avvicinandomi riconosco come pomodori. Ma questi non sono pomodori qualunque, sono piccoli, non peseranno più di 20 grammi l’uno, leggermente pruniformi, con un particolare piccolo pizzo all'estremità inferiore e squadrature laterali vicino al picciolo, sono i famosi Pomodorini del Vesuvio, conosciuti anche col nome dialettale di Pomodorini "del Piennolo" (ovvero "del Pendolo") oppure come Pomodorini Spongillo, nome che fa riferimento alla tradizionale tecnica di appendere i pomodorini uniti a grandi grappoli per conservarli fino all’inverno.

E’ una varietà di pomodori particolarmente apprezzata in gastronomia per le sue qualità organolettiche e per l’inconfondibile e delizioso sapore dolce-acidulo derivante dalla elevata concentrazione di zuccheri e sali minerali. Questa è dovuta al terreno vulcanico dove vengono coltivati i “Pomodorini del Piennolo".

Ecco dunque rivelata la generosità del Vesuvio, che con le sue terribili eruzioni ha nei secoli distrutto e spaventato, ma anche donato ceneri ricche di minerali e sostanze nutritive che hanno arricchito il terreno, rendendolo fertile e capace di produrre meravigliose bontà come i Pomodorini del Vesuvio.

Questi rappresentano un alimento molto importante per l a dieta contadina, in quanto il metodo con cui vengono coltivati, in piccoli appezzamenti posti tra i 150 e i 450 metri sul livello del mare, in assenza di irrigazione ed esposti ad un sole quanto mai generoso, e il sistema con cui vengono conservati, permette loro di esprimere la meglio le proprie caratteristiche nutritive.

I pomodori sono, infatti, ricchi di vitamine A e C, ma contengono anche buone quantità di vitamina B, potassio, fosforo e magnesio. Aiutano a mantenere la buona salute di ossa, denti e vasi sanguigni e svolgono un’importantissima azione antiossidante e di protezione dalle infezioni.

Recenti studi hanno infatti dimostrato che nei pomodori è presente una preziosa sostanza antiossidante: il Licopene, capace di ridurre sensibilmente l'incidenza di alcuni tipi di tumori e di altre patologie legate al deterioramento dell'apparato cardio-vascolare. Gli agricoltori sono attenti a mantenere intatte le tecniche tradizionali di coltivazione che prevedono, tra l'altro, l'ausilio di sostegni realizzati con paletti di legno e filo di ferro, che evitano il contatto dei pomodorini con il suolo e fanno sì che essi ricevano i raggi solari uniformemente, colorandosi in maniera adeguata. Anche la tecnica di conservazione è ancora quella tradizionale: raccolti nel periodo estivo, tra luglio e agosto, prima della loro completa maturazione, i pomodorini vengono sistemati nella caratteristica forma a “piennolo”.

Posti a mano su un filo di canapa, legato a cerchio, arrivano a comporre un unico grande grappolo di diversi chilogrammi che verrà mantenuto sospeso da terra in luoghi ben asciutti e ventilati. Sistema questo, che, favorendo una lenta maturazione, consente una lunga conservazione, con la conseguente possibilità di consumare il prodotto “al naturale” fino alla primavera seguente. Dal piennolo è possibile "attingere" cogliendo i singoli pomodorini che diventano così un ingrediente essenziale di tanti piatti tipici napoletani, regalano un tocco inconfondibile alla pizza, alle bruschette, agli spaghetti, alle salse, agli intingoli a base di pesce e a molte altre ricette.

Queste piccole delizie rosso fuoco, possono essere variamente utilizzate in cucina e il loro gusto assolutamente unico ha spinto i ristoratori campani e non solo a valorizzare questo prodotto nelle loro ricette, recuperando un ingrediente tipico della tradizione partenopea e suscitando un interesse sempre crescente per questa perla gastronomica. Interesse che ha spinto i promotori del Pomodorino del Piennolo a conseguire il riconoscimento del marchio DOP.
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Marigliano, la patata fiore di maggio


Marigliano - Patata, fiore di Maggio
 MARIGLIANO - La prima tappa del mio viaggio è inaspettata e sorprendente. Mi fermo molto prima del previsto e non molto lontano da dove sono partito, nelle campagne dell’agro acerrano-mariglianese, in quella che viene chiamata “ Pianura di Polvica”. A determinare la mia sosta non prevista, mentre mi dirigevo verso luoghi un po’ più lontani della nostra Regione, è la miriade di fiori dal color bianco-argento che spunta dai campi che costeggiano la strada che sto percorrendo. Non ho mai visto un fiore simile e incuriosito fermo l’auto e comincio ad interrogarmi sull’identità di questi misteriosi fiori.
Non riuscendo a venirne a capo, decido di chiedere informazioni ad un contadino di passaggio, che sicuramente meglio di me conoscerà i prodotti della terra.

La risposta che ottengo, mentre vengo guardato con un misto di incredulità e scetticismo, è semplice e sorprendente: sono fiori di patata. Ora che lo so mi sembra ovvio! Tutta la zona tra i comuni di Acerra e Marigliano è da sempre coltivata a patate, solo che, ora me ne rendo conto, noi “cittadini” non siamo più abituati a seguire i cicli di maturazione dei frutti della terra e spesso dimentichiamo che il delizioso tubero da noi chiamiamo patata rappresenta solo una parte di una pianta che, come ogni altra, ad un certo punto dell’anno (a maggio in questo caso) fiorisce.

Ed ora mi ritorna alla mente anche un aneddoto che mi venne raccontato a scuola da qualche maestra, quello secondo cui i fiori di patata vennero anche indossati dalla regina di Francia Maria Antonietta per spingere la corte e i sudditi a consumare il tubero, verso il quale, al momento della sua introduzione dall’America, si era creata una certa diffidenza. La patata venne infatti scoperta nel XIV secolo durante la conquista del Perù dagli spagnoli di Francisco Pizarro che la portarono in patria da dove si diffuse poi in Germania e in Italia e successivamente in Francia.

In tutta Europa però, per quasi due secoli, venne considerata solo una curiosità botanica e utilizzata per lo più come pianta d’appartamento. Questo a causa dell’aspetto inconsueto e all’appartenenza alla famiglia delle Solanacee (come la belladonna o la dulcamara), piante dalle foglie velenose che erano in odore di stregoneria o venivano considerate dannose per la salute. Inoltre, il fatto che non si potesse usare per panificare e non si potesse mangiare cruda la rendevano poco attraente agli occhi dei contadini, che non sapevano bene come consumarla. Ci vollero dapprima la guerra dei Trent’anni anni (1618-1648) e poi le epidemie e le carestie della metà del ‘700 per superare questi tabù, diffondere la conoscenza della patata e avviarne la coltivazione sistematica in Irlanda, Inghilterra, Olanda e Prussia.

In Francia fu solo grazie all’opera di Antoine Augustin Parmentier, farmacista ed agronomo, che la patata venne finalmente sdoganata da accuse e false credenze. Questo studioso riuscì a dimostrare, nel 1773, l’infondatezza dei pregiudizi ai luminari dell’Accademia di Medicina di Parigi, ma la sua opera non si fermò qui. Per far conoscere al popolo la nuova pietanza, fece piantare interi campi di patate nelle terre attorno a Parigi, ottenendo dal re che fossero sorvegliati dai soldati durante il giorno.

La notte, gli abitanti della zona, incuriositi, rubavano i preziosi tuberi, assicurandone in tal modo la pubblicità. Una volta scoperto che la patata, consumata cotta, rappresentava un cibo non solo gustoso ma anche nutriente, non ci furono più limiti alla sua diffusione. Divenne ben presto un alimento immancabile sulle tavole contadine, utile soprattutto nei periodi di magra, quando carestie o avversità naturali danneggiavano le altre coltivazioni, infatti, le patate, che crescono sottoterra, erano le uniche a resistere. Utilizzata in diverse preparazioni, sia dolci che salate, la patata divenne la grande protagonista della cultura gastronomica contadina, il cosiddetto “cibo dei poveri” che non poteva mai mancare.

Le caratteristiche nutrizionali, in termini di apporto di glucidi complessi sotto forma di amido, fibre, vitamine (B1, B2, B3, B6 e C), ferro e potassio la rendono però un alimento tutt’altro che povero e ne fanno ancora oggi un alimento di grandissima diffusione ed apprezzato da tutti. Recentemente, si è scoperto che il considerevole apporto di amidi gastroresistenti protegge l’organismo dall’insorgenza di tumori legati all’eccessivo consumo di carne rossa. Basta infatti associare al piatto di carne un’insalata di patate lessate o cotte al vapore per mitigare i danni della dieta prevalentemente carnivora.

La patata
, in tutte le sue varietà, dalla matura da “conservazione” che si raccoglie a settembre/ottobre, alla novella, che nei luoghi in cui mi trovo ora si raccoglie già a maggio, non può dunque mancare come contorno sulle nostre tavole, sia in quanto alimento che giova alla salute sia in quanto testimonianza del forte legame con le tradizioni culinarie del nostro passato. La vista dei fiori di patata mi ricorda l’importanza che questo alimento ha avuto per i nostri nonni, che ben ne avevano compreso il valore. Una vista che ci dà l’occasione per riscoprire ancora una volta le nostre radici.
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